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Die Kanzone ist eine Gedichtform, die vom altprovenzalischen Minnelied (cansò) abstammt und in Italien als eine der wichtigsten lyrischen Formen gilt. Die ursprünglich in der sizilianischen Schule praktizierte Canzone hat Dante aufgegriffen und mit metrischen Regeln versehen. Er selbst hat erklärt, die Kanzone sei die hervorragendste der Gedichtformen: „Cantionum modum excellentissime esse putamus". In seinem Werk De vulgari eloquentia hat er die Regeln der Kanzone zusammengestellt: er gab den endecasillabi den Vorzug vor anderen Die canzone des Duecento war in der Formgebung freier, es wurden beispielsweise verschiedene Metren angewandt, sirmas waren häufig aufgeteilt, die |
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Die Kanzone besteht aus einer freien Anzahl an Die fronte lässt sich einteilen in piedi (Stollen). Gewöhnlich sind es 2, seltener 3 piedi. Diese können verschiedene Anzahl an Die sirma kann ebenfalls sowohl unaufgeteilt bleiben ( sirma indivisa ) sowie zweigeteilt werden in volte. Genau wie bei den piedi sind auch die volte in ihrem Als Verbindung zwischen piedi und volte kann ein Ein weiterer durch Dante theoretisch formulierter Hinweis zur Abschließender Bestandteil der Kanzone nach Dante ist der häufig vorzufindende congedo oder commiato (deutsch: Geleit). Der congedo kann sowohl die ganze letzte stanza, aber auch nur die sirma oder nur der Schlussteil der sirma sein. Von der Struktur her verhält er sich meist wie die sirma, er kann aber auch eine eigene autonome Form aufweisen (congedo irrazionale). Die von Petrarca für die Kanzone festgelegten
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Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque (RVF 126) Chiare, fresche et dolci acque, erba e fior' che la gonna leggiadra ricoverse co l'angelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse: date udïenza insieme a le dolenti mie parole estreme.
S'egli è pur mio destino e 'l cielo in ciò s'adopra, ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda, qualche gratia il meschino corpo fra voi ricopra, e torni l'alma al proprio albergo ignuda. La morte fia men cruda se questa spene porto a quel dubbioso passo: ché lo spirito lasso non poria mai in piú riposato porto né in piú tranquilla fossa fuggir la carne travagliata e l'ossa.
Tempo verrà ancor forse ch'a l'usato soggiorno torni la fera bella e mansüeta, e là 'v'ella mi scorse nel benedetto giorno volga la vista disïosa e lieta, cercandomi; e, o pietà!, già terra in fra le pietre vedendo, Amor l'inspiri in guisa che sospiri sì dolcemente che mercé m'impetre, e faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo.
Da' be' rami scendea (dolce ne la memoria) una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo; ed ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de l'amoroso nembo. Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch'oro forbito e perle eran quel dí a vederle; qual si posava in terra, e qual su l'onde; qual con un vago errore girando parea dir: - Qui regna Amore. –
Quante volte diss'io allor pien di spavento: Costei per fermo nacque in paradiso. Cosí carco d'oblio il divin portamento e 'l volto e le parole e 'l dolce riso m'aveano, e sí diviso da l'imagine vera, ch'i' dicea sospirando: Qui come venn'io, o quando?; credendo d'esser in ciel, non là dov'era. Da indi in qua mi piace quest'erba sí, ch'altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia, poresti arditamente uscir del bosco, e gir in fra la gente.
Guido Cavalcanti, La forte e nova mia disaventura
La forte e nova mia disaventura Disfatto m’ha gia tanto de la vita, |
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