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Petrarca, RVF 126

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Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.

S’egli è pur mio destino,
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo;
ché lo spirito lasso
non poria mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.

Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dì, a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual, con un vago errore
girando, parea dir: Qui regna Amore.

Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Così carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sì, ch’altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho et gir in fra la gente.

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a
b
C
a
b
C
c
d
e
e
D
f
F

Fronte: primo piede


Secondo piede


Concatenatio: Beginn der sirma


 



 




 



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FRANCESCO PETRARCA: Canzoniere. Hg. von Marco Santagata, Milano: Mondadori, 1996, S. 190-193.

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„Chiare, fresche et dolci acque“ è la poesia 126 del Rerum Vulgarium Fragmenta, ossia il Canzoniere, di Petrarca. Sul luogo e la data di composizione esiste una vastissima bibliografia, portatrice di ipotesi molteplici e anche contrastanti fra di loro. Tradizionalmente collocata all’interno delle “rime in vita” come per esempio da Enrico Sicardi (che difende la datazione sia al 1340-41, sia quella all’estate del '43), quindi situandola in un momento anteriore alla morte di Laura avvenuta nel 1348, c’è invece chi, come Battisti, considera la 126 composta in Italia intorno al 1350, o chi, come David, propende per il 1345 con una scrittura a Valchiusa.[1] Una sorta di sintesi di queste due posizioni è l’ipotesi di Fenzi che sostiene che “la 126 sia una canzone ‘in vita’ scritta ‘in morte’, cioè intorno agli anni Cinquanta: ipotesi basata sulla forte impronta impronta agostiniana […] e sul possibile spostamento della morte reale dell’amata alla morta fittizia dell’amante.”[2] Da un punto di vista formale la 126 è un esempio di , cioè, un componimento strofico foggiato dai poeti della scuola siciliana sulla falsariga della cansò provenzale,[3] e più specificamente, della canzone petrarchesca, “la quale è formata da un numero variabile di stanze, uguali tra loro per numero, qualità e disposizione dei (in genere endecasillabi soli o alternati a settenari); ogni stanza è divisa in due parti: fronte e sirma, mentre la serie delle stanze è generalmente chiusa da un commiato o congedo.”[4].
La canzone consta di cinque stanze, ognuna di tredici versi, nove settenari e quattro endecasillabi rispettivamente in terza, sesta, undicesima e tredicesima posizione, secondo lo schema abCabC (fronte) cdeeDfF (sirma); il congedo finale ha tre versi, due endecasillabi e un settenario, secondo lo schema AbB.[5] All’infuori dell’endecasillabo finale che chiude ogni stanza, la canzone 126 ha uno schema metrico identico a quello della canzone precedente: una scelta ritmica che “non basta a trasformare in inno l’elegia, ma solo abile a caricare ulteriormente il testo di favolosi tremiti, trascinati dalla disparità mensurale […] nelle clausole strofiche in distico finale”.[6] Una forte relazione capfinida sulla base dell’opposizione spicca fra la stanza I (‘ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse’, v. 11) e II (‘ch’Amor quest’ occhi lagrimando chiuda’, v. 16)”, primo indizio della tensione, costituita dalla dualità amore/morte, che pervade tutta la poesia. Dicotomia ossimorica sulla quale s’innesta tutto l’intreccio filosofico ed erotico della canzone e che consente d’interpretare Amore come una forza della natura al contempo prodigiosa e devastante. Per di più, l’orditura di concetti contrari eppure calamitati fra di loro che poggia sulla dualità amore/morte sarà poi consolidata da altre coppie altrettanto antitetiche; ad esempio: “fera bella e mansueta” per tratteggiare l’effetto ambiguo che la persona amata innesca sull’io lirico; oppure “humile in tanta gloria” a proposito della disposizione caratteriale della persona amata che come Fenzi ha già notato è “umile perché accoglie [la gloria] senza superbia, così come accoglie la lode; ma umile due volte, perché ciò comporta ch’essa sia sottomessa, disposta a lasciarsi invadere dalla forza di Amore”.[7] Alla sfera semantica delle opposizioni si aggiunge un altro fenomeno, anche lui, carico di contrasti: il tempo. Il tempo e la sua divisione tripartita -passato, presente e futuro- confluiscono nella canzone 126 irrimediabilmente nell’appello nell’appello della memoria, una memoria che è “l’unico tempo propriamente umano”.[8]
Nella I stanza il tempo del ricordo/invocazione di Laura corrisponde a un momento nel passato chiaramente segnato dall’uso del tempo perfetto, ferreo nella memoria (pose, piacque, ricoverse, aperse); mentre il quinto verso “(con sospir’ mi rimembra)” è una sospensione del flusso della memoria volontaria, alla quale farà eco il “dolce ne la memoria” della quarta stanza.[9] Alla fine della I stanza, il distico finale è contraddistinto dall’appello che nasce dall’atto di cantare e che si ricollega, in un primo momento, alla captatio benevolentiae del verso esordiente del RVF  “Voi che ascoltate […]” e, in un secondo momento, al sentimento addolorato del verso che lo sussegue “di quei sospiri ond’io nudriva il core”.
Nella II e la III stanza il movimento del discorso dell’io lirico passa dal presente patito, sia per il sopruso del tempo che scorre senza mai fermarsi che per l’ineluttabilità del fato, in cui è contenuto un presagio luttuoso, all’immaginazione all’immaginazione di un futuro vissuto al passato, cioè, filtrato dalla memoria: “Tempo verrà anchor forse […]” “et là v’ ella mi scorse”.[10] Ma la vera cesura nel flusso discorsivo della canzone avviene fra la III e la IV stanza: uno straordinario passaggio tra il sogno del futuro e contemplazione del passato (“Da’ be’ rami scendea”).[11] In questa proiezione del tempo la conoscenza del disincanto della realtà subentra alla perplessità provocata dalle malie dell’immaginazionedell’immaginazione: il futuro è perenne ma il flusso presente dell’io, che trova sfogo nella quinta stanza, converte il passato in membrana viva e il futuro in desiderio : “Da indi in qua mi piace/ questa herba sí, ch’altrove non ò pace”.
Infine, una lettura piana dei versi, riguardante l’aspetto più immediato della dialettica tempo/amore/morte, se non è ribaltata è almeno completata, al rovescio, da Fenzi che sostiene che non è Laura che è morta[12] ma Petrarca che immagina se stesso morto e Laura che lo ritrova finalmente già privo di desiderio (“fuggir la carne travagliata et l’ossa), e quindi pronto a essere amato nell’eternità.



[1] Santagata, p. 585-586

[2] Santagata, p. 585-586

[3] Dizionario di metrica e retorica, Milano, 2013

[4] Ivi.

[5] Bezzola, p. 271

[6] Bettarini, p. 589

[7] Fenzi, p.475

[8] Fenzi, p. 484

[9] Bettarini, p. 591

[10] I corsivi sono miei.

[11] Bettarini, p. 589

[12] Cfr. Santagata, p. 585-586

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